Il saccheggio dei blog

Curioso il modo con cui siti come repubblica.it o corriere.it hanno gestito le notizie legate all’uccisione in autogrill del tifoso laziale o all’assassinio della ragazza inglese a Perugia.

I protagonisti di queste storie avevano una presenza in internet, una pagina su Facebook o un blog e l’informazione è ben presto arrivata ai giornali.

Sarebbe stato lecito aspettarsi che gli articoli pubblicati in questi giornali online contenessero qualche rimando al blog, per esempio una selezione di link verso interventi che cercassero di spiegare comportamenti o passioni di questi ragazzi. E’ quello di cui Dan Gillmor parla in We the media, cioè il ruolo del giornalista come editor, selezionatore e propositore delle fonti:

I take it for granted that my readers know more than I do, and this is liberating, not threatening. Our core values, including accurancy and fairness, will remain important. Our ability to shape larger conversations will be at least as important as our ability to gather facts and report them.

E’ però molto difficile trovare i link ai blog in questi articoli, se non nascosti in fondo a qualche spalla del sito o annegati alla fine della pagina. Quello che in realtà è successo è che i giornalisti si sono appropriati dei contenuti copiandoli nei propri articoli, saccheggiandoli. Sono state saccheggiate le frasi da riportare in brevi articoli di contorno e sono state saccheggiate soprattutto le foto, finite a comporre gallerie fotografiche al solo scopo di aumentare le pageview del giornale. Sarebbe stato più corretto, oltre che più semplice, riportare un link al blog, eppure non è quasi mai stato fatto.

E’ questo a cui serve un blog, i nostri blog? A fornire materiale pronto all’uso per redattori insonnoliti e pigri? I contenuti di un blog hanno senso se analizzati nel complesso, mentre un solo intervento, isolato dal resto, non ha valore.

E pensare che molti di questi giornali online sono convinti di utilizzare una struttura innovativa, a blog. Ma di blog c’è – per l’appunto – solo la forma, non il contenuto.

Non è una novità. Lo stesso David Weinberger, durante il suo intervento allo IAB Forum la scorsa settimana (ma anche in quello dell’anno scorso a Parigi), lamentava l’atteggiamento di alcuni siti, come quello del New York Times, realtà in cui perfino i banner portano nuovamente a una pagina interna del sito.

Non sarà una novità. Ma ogni volta che vedo questi comportamenti mi auguro sia l’ultima.

David Weinberger allo IAB Forum 2007

Sono allo IAB Forum di Milano per assistere alla prima delle due giornate del convegno. Approfitto dell’inaspettata connessione per scrivere qualche veloce appunto sull’intervento di David Weinberger, che ho già avuto modo di incontrare lo scorso anno a Parigi (e l’intervento ricorda in alcuni punti proprio quella presentazione).

Aggiornamento del 13 Novembre 2007: sul sito della IAB sono presenti video e slide della presentazione di David Weinberger.

E la presentazione è sicuramente accattivante e ricca di pathos, anche se in alcuni elementi non mi sembra procedere secondo un chiaro filo logico. Ma sono stato rapito dai gesti, dalle smorfie e dalle urla di Weinberger sul palco, per cui la mia trascrizione risulta senza dubbio lacunosa e imprecisa.

Secondo Weinberger le sfide sono fondamentali nel mondo del marketing, perché le sfide introducono anche nuove possibilità di mercato. Possono in particolare diventare possibilità per coinvolgere e comportarsi nel modo “giusto” sia con il nostri clienti, con i nostri mercati.

Weinberger fa un paragone con la costruzione e l’ingegneria. Più grandi e complessi sono i progetti, maggiore è la necessità di controllo perché questi si concludano felicemente. Per questo si introducono i manager, poi i manager dei manager, poi i manager che controllano i manager di manager.

Visto che il Word Wide Web e complesso, quanti manager servono per tenerlo sotto controllo? Nessuno, eppure è una delle cose più importanti che abbiamo mai creato. E questo non è un caso, ma è stato fatto con coscienza. Il web è una “permission free zone”, nel bene e nel male. E va considerato che c’è un’intera generazione che sta crescendo nel web.

Quello che accade nell’attuale teoria economica è che dopo aver costruito il business lo difendiamo come se fosse un forte. Controlliamo attentamente le comunicazioni verso i clienti, gli diciamo non quello che vogliono sentirsi dire, ma quello che vogliamo dirgli. E lo chiamiamo marketing!

Internet però non ha barriere, non ha segreti. E questa situazione va a braccetto con il fatto che i clienti conoscono meglio i prodotti delle stesse aziende, perché parlano tra di loro, perché usano i prodotti.

Si dice che i mercati siano conversazioni, ma non ci sono mercati per i messaggi.

Il marketing a un certo punto diventa guerra: marketing campaign, targeted marketing, saturation marketing, stategic marketing, marketing penetration. E’ una spiacevole situazione.

Abbiamo così suddiviso i clienti in mercati, che però non sono reali. Pensiamo che chi appartiene allo stesso market sia suscettibile alle stesse scelte, ma ci siamo accorti che non è così. Abbiamo allora introdotto il concetto marketing centrato sulla persona, come se ogni utente fosse un mercato. Ma neanche questo è vero. In realtà quello che succede è che le persone parlano le une con le altre e formano tra di loro dei mercati, mercati basati su interessi comuni.

  • abbiamo conversazioni per il gusto di averle, conversazioni reali
  • nascono in modo volontario
  • sono “open ended”, non sono guidate verso particolari conclusioni, non sappiamo dove conducono

La vera sfida è quella di riuscire a coinvolgere i nostri clienti in queste conversazioni.

Weinberger parla di quando ha voluto comprare una lavatrice e si è collegato al sito del produttore, che contiene solo informazioni di vendita. In un forum di utenti ha però trovato personale qualificato, soprattutto un certo Jim, che rispondeva alle domande. Weinberger ha creduto a Jim e non all’azienda:

  1. perché scriveva con errori, era genuino
  2. perché era parte di una conversazione

La cosa interessante è che queste conversazioni minano il lavoro della pubblicità tradizionale, perché riescono ad andare molto oltre.

Weinberger affronta poi qualche argomento legato al suo libro. Abbiamo detto alle aziende che l’informazione è il cuore dell’azienda, la cosa più importante. Consci di questo, hanno fatto di tutto per proteggerla e per non condividerla verso l’esterno. Oggi però ci rendiamo conto che il vero valore aggiunto dell’informazione è poterla usare, derivare altre informazioni. E’ più importante potere aggregare le informazioni piuttosto che proteggerle.

Le informazioni dovrebbero essere presentate con chiarezza. Sarà chi poi le analizza che le potrà far diventare complesse: la gioia della complessità. E per quanto riguarda la credibilità? Come comportarci con servizi come Wikipedia? Ci fidiamo? Sì, perché Wikipedia pone chiaramente, con delle note, avvertimenti sulla qualità degli articoli (un articolo che contraddice un altro, informazioni e sorgenti non verificate, un articolo che contiene poubblicità, un articolo che use parole non chiare, un articolo che potrebbe non essere neutrale). In questo modo la credibilità di Wikipedia esiste, perché ammette di poter sbagliare. Ci dice, come lettori, che è dalla nostra parte, non sta cercando di dirci che è migliore degli altri.

Cosa possono fare quindi le aziende? Possono passarci la palla, come per esempio fa Amazon con le recensioni, perché la gente compra libri che le piacciono. Ma come entrare nella conversazione? Non basta essere trasparenti, chiari e onesti. Dobbiamo coltivare la conversazione con i nostri clienti, dobbiamo onorare la conversazione (“honor the conversation”).

L’eredità di Small Pieces Loosely Joined

Come ho detto dal Le Web 3 di Parigi, l’intervento che forse mi ha colpito di più, indipendentemente dalla sua durata (appena 15 minuti), è stato quello di David Weinberger.

Considero Small Pieces Loosely Joined (Arcipelago Web in italiano), il libro che ha scritto nel lontano (per i tempi web) 2002, una sorta di manifesto del web 2.0. Mi ricordo di averlo acquistato una mattina, per caso, trovandolo in super-svendita in un Autogrill mentre guidavo verso Rimini per lavoro. Da allora è nello scaffale dei testi da ispirazione.

Mi ricordo che quando Tim O’Reilly (quello che ha coniato il termine web 2.0 e fondatore dell’omonima casa editrice) nel suo blog ha chiesto mesi fa ai lettori quali sono i migliori libri del “web 2.0”, gli ho proposto proprio Small Pieces Loosely Joined. Ma Tim non ha gradito e non ha mai pubblicato il mio commento, forse perché gli interessava che si parlasse dei nuovi libri che O’Reilly continua a produrre, molti privi di significato.

Eppure ci sono begli spunti, che ho via via sottolineato in quel testo, alcuni dei quali riporto qui come elenco puntato.

Se siete interessati a comprare il libro, comunque, tenete conto che lo trovate come remainder in molte librerie, come per esempio su BOL.

Ecco alcuni dei punti segnati nella mia copia:

  • Il web infrange il modello tradizionale di redazione e pubblicazione dei documenti, quello incentrato sul controllo
  • Il web unisce in un modo nuovo non semplicemente le pagine di un libro, ma gli esseri umani, tutti noi. Gli “isolotti del’arcipelago web” in realtà siamo noi, che stiamo unendoci gli uni agli altri in modo ancora da inventare, ma chiaramente labili e flessibili
  • sono tra coloro che credono che possiamo essere individui solo in quanto membri di un gruppo
  • sul web riscriviamo noi stessi, ascoltando voci che ci sorprende scoprire nostre[…]Entriamo in contatto con nuovi lati della nostra personalità
  • il web è intrinsecamente un organismo non gestito, e questa caratteristica è risultata uno dei fattori decisivi del suo successo
  • lo spazio del web è infinito nel senso che si può sempre trovare posto, ma non è infinitamente esteso; non è un contenitore in attesa di essere riempito, ma piuttosto un libro che si sta scrivendo
  • la distanza sul web è misurata dai link, per cui per rendere un sito “vicino” ai propri clienti bisogna far sì che vi siano molto luoghi da cui sia possibile accedervi. E come è possibile farlo? Rendendolo valido e interessante
  • sul web la vera capacità di trattenere i visitatori non deriva dalla scomodità, ma dall’interesse
  • sul web tutti saranno famosi per 15 persone [altro che per 15Mbyte, come diceva quella di Google al Le Web 3 non facendo ridere nessuno!]

Potrei continuare, ma termino con un punto per chi si chiede come mai vada di moda apporre il suffisso beta a ogni prodotto che gira sul web: “La rete avrà sempre qualcosa che non funziona. E’ una decisione progettuale”.